John Fante, l’arte del cemento tra Los Angeles e Montecorvino

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Tra i miei scrittori preferiti rientra a pieni voti uno dei padri della letteratura americana contemporanea, nonché l’autore/modello preferito di Bukowski, vale a dire John Fante (1909-1983). E’ un ottimo scrittore, ma sopra tutto di lui apprezzo la sua capacità narrativa di raccontare i piccoli drammi quotidiani. Ammiro la sua poetica del ruvido, dove ogni cosa sembra fatta di setole ispide: è una tecnica che trovo molto interessante perché, a mio avviso, comunica maggiormente il senso di reale, di concreto, di umano. I suoi antieroi sono tanto “anti” nella loro incostanza, nella loro inconcludenza e nel fallimento, quanto “eroi” nel loro essere unici, nel perdere le sfide della vita ma sentirle come vittorie, nel loro essere indistruttibili. I personaggi sono quasi sempre legati a radici italiane (lui stesso era originario dell’Abruzzo), e del bagaglio culturale della nostra terra l’autore conserva gelosamente un forte ricordo legato ai muratori, ai manovali, a questi costruttori veraci che progettavano case senza aver mai studiato nelle facoltà di architettura. Il padre stesso del protagonista della sua saga letteraria più famosa – quella di Arturo Bandini – è uno di loro. E’ un mondo, quello di Fante, fatto della stessa calcina che mi ricorda tanto i poveri di De Amicis. E’ come se la sua scrittura volesse riverberare il senso dell’Italia attraverso mattoni e cemento, attraverso l’umile onestà dei materiali che ha nella figura del Padre (figura che ritorna in più vesti -ma sempre con lo stesso ruolo- in diversi libri, primo fra tutti “full of life”) le sue sorgenti italiche, vinose e austere. Ma contemporaneamente, tale figura deve fare i conti con tutto il mondo che lo circonda, vale a dire il paesaggio americano con la sua retorica, i suoi sogni, le sue libertà quasi capricciose che sono invece rinverditi nella figura del Figlio/Autore narrante. Ecco: questo contrasto, che viene narrato in più forme e varianti nelle diverse opere è il grande magma dal quale nascono verità, contrasti e speranze che spesso hanno il sapore di fiele. E’ tutto un mondo di attese di tempi migliori, di paziente sopportazione. Tutto dovrà migliorare – una consolazione che viene avvertita illusoria con il giusto disincanto nel momento stesso in cui viene pensata – e i suoi libri raccontano il tempo minimo che scorre durante questa attesa (emblematico è il titolo “aspetta primavera, Bandini”).
Mi piace pensare a Fante come un demiurgo che ha tirato fuori il suo mondo narrativo da una betoniera e ha dato forma a quel caos/cemento impastando con mani callose ma anche con l’acume e il talento di chi nasce, per natura, con la capacità di scrivere. E questa sua capacità si avverte tutta. Le frasi rotolano via come biglie. A me hanno dato l’impressione di tanti sassolini lanciati con gesto secco nel mare, e i cerchi d’acqua che formano davvero mi sembrano l’eco di quelle parole che ancora adesso mi porto dietro, così come mi succede quando mi capita di leggere qualcosa che mi colpisce veramente dritto al cuore. Ecco, questo è Fante per me: una eco che mi circonda e che mi porta ad osservare i miei vicini di casa, i negozianti, la strada e la polvere. E, sarà suggestione o meno, ma davvero tutte queste cose e persone iniziano ad assumere i connotati di storie mezze vere e mezze finte, scritte da qualcuno tanti anni fa e dall’altra parte del mondo. E questo è, a mio avviso, il dettaglio che distingue lo scrittore dal grande scrittore: l’annullamento dello spazio e tempo, la capacità di orchestrare una storia facendo in modo che rifletta parametri universali, consegnando personaggi, luoghi e cose ad una sorta di eternità letteraria (un po’ lo stesso motivo per cui l’ “Odissea” si è prestata straordinariamente alla rilettura joyciana dell’ “Ulisse”).
E’ dunque rimandando alla lettura dei libri di questo straordinario autore che mi piacerebbe aprire una parentesi che nasca dalla letteratura pura e trovi un suo sbocco nella vita sociale e nell’attualità.
Più volte ci si chiede cosa sia la “civiltà”. Oppure cosa sia una “città”. La verità è che entrambe sono la stessa cosa, perché antropologicamente e storicamente parlando, il sapersi organizzare in una determinata stratificazione sociale da parte dell’uomo, dà origine a quello che poi, da un punto di vista urbanistico, viene definita appunto città. Ma io, appellandomi a quanto può insegnare la cultura della Grecia antica, aggiungerei a questi due termini un terzo, vale a dire “cittadinanza”, e che, come i precedenti, si equivale ad essi, riflettendosi in loro come in uno specchio.
Abbiamo quindi così un’equazione che identifica la “cittadinanza” (le persone) con “città” (il luogo) e, a sua volta, con la “civiltà” (la cultura).
E’ stata l’operosità di uomini volenterosi che ha tirato su il Partenone di Atene, così come la stessa operosità di altri uomini ha reso forti popoli di ogni quando e ogni dove. E guardando i loro risultati, conviene che ci si renda conto di una delle più grandi verità: la cultura è un affare fatto di mattoni, calcina e vanghe. E’ un qualcosa che dialoga con il sudore, con le ossa rotte, con l’impegno e la sofferenza. Tutto questo perché – sia ben chiaro – fare cultura vuol dire costruire.
E, in altri casi, vuol dire anche aggiustare. Così come è stato per il teatro in piazza Seesen Harz di Montecorvino Rovella che da un po’ di tempo sonnecchiava già pronto ad abbandonarsi all’incuria. Ignorato, in maniera ugualmente colpevole, un po’ da tutti. Colpevole perché se è pur vero che cultura è costruire, al contrario abbandonare è delitto.
Invece da pochi giorni si è appreso la notizia che un gruppo di cittadini, nel pieno rispetto della propria città, ha deciso autonomamente di fare qualcosa per promuovere il senso di civiltà (vedete come, quasi matematicamente, l’equazione torni, risultando esatta). Muniti degli strumenti giusti, hanno ridipinto e aggiustato, nei limiti del possibile, l’orchèstra e la skenè (così come i greci chiamavano le parti del teatro che oggi potete vedere ricolorate. E non è un caso che abbia utilizzato tali termini). E in tale ambito, è ugualmente giusto ricordare l’attrezzo della sala prove ivi presente, la cui realizzazione è nata sotto un impulso e un impegno simile.
E’ sempre piacevole venire a conoscenza di una miglioria apportata al proprio paese, anche per quelli che, come me, lo vivono da lontano. Ma da parte mia è stato ancora più bello sapere che non le autorità, ma le persone abbiano deciso di fare questo e soprattutto non a un edificio qualsiasi, ma ad un teatro.
In questo gesto, io ho visto un simbolo di civiltà. Civiltà pura, al 100% e sotto ogni aspetto. Cittadini che ristrutturano gli edifici rappresentativi di cultura. Ricordando che, per tornare a quanto dicevo sopra, l’opera manuale di costruzione e ristrutturazione è cultura stessa. Dunque, vada tutto il mio modesto plauso per l’impegno e la volontà dimostrati da quanti hanno deciso di partecipare ed aiutare in questa piccola impresa. Nei tempi un po’ infausti nei quali siamo costretti a barcamenarci, non credo ci sia niente di più bello ed esemplare da fare.
Perché è tempo di costruire e ricostruire. E’ tempo di tornare al cemento di John Fante, così come è tempo di imparare a leggere quello che lui diceva a proposito di quel cemento. A tal proposito, mi sono sempre chiesto come reagirebbe se lui, con le sue origini abruzzesi e le mani avvezze a secchio e cazzuola, vedesse oggi le rovine de L’Aquila. Pensate a cosa direbbe (o forse non direbbe, sconvolto) sia in quanto figlio di muratori di fronte alle macerie, sia come intellettuale e fiore all’occhiello della cultura di fronte all’immobilismo politico e sociale. Proprio lui che le sue radici italiane è andato ad affondarle in un paese, quale l’America, che nonostante tutti i difetti e le contraddizioni, resta il paese del “tirarsi su le maniche”, della ricostruzione (senza speculazione) dopo i tornados, il paese dove l’ex presidente Carter trascorreva la sua pensione costruendo case pro bono in qualità di falegname e carpentiere. Impariamo da quello che di buono l’America italiana di Fante ci può offrire. Servono pale, picconi e pennelli. Servono persone che sappiano pensare e sappiano impilare mattoni. C’è bisogno, in maniera sia piccola che grande, di tirare su edifici e tirare su noi stessi. Così come c’è bisogno di imparare da capo la grammatica della civiltà. E soprattutto, c’è bisogno di farlo senza aspettare l’arrivo dei “nostri”, perché, come diceva Dario Fo in un suo spettacolo, “i nostri siamo noi”.

Danilo D’Acunto