La favola insegna che…

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Tra le numerose invenzioni letterarie nate nella Grecia antica si annovera l’ultima espressione della prosa appartenente al VI secolo a. C.: la favola. La narrativa popolare, sotto forma di racconti brevi, novelle e fiabe ebbe subito un enorme successo tra il pubblico dell’epoca. E’ pur vero che bisognerà attendere il periodo ellenistico (IV-III sec. a. C.) perché la novella diventi un genere letterario a tutti gli effetti e a sé stante, pur considerando che echi e motivi novellistici si riscontrano in maniera sparsa già in Omero ed Erodoto.

I nostri primi ricordi si associano alle fiabe che i nostri nonni o i nostri genitori ci leggevano nel corso della nostra infanzia. Ma chi è considerato l’inventore e/o il divulgatore di questi magnifici racconti? La favola vera e propria (diversa dalla novella) ebbe sin da subito vita autonoma e legò il proprio nome e la sua fortuna a un certo Esopo. Si tratta di una figura che gli antichi definirono il padre della favola e su cui non sappiamo quasi nulla di certo. Esopo operò nel VI sec. a. C. e molto probabilmente era originario dell’Asia Minore, di condizione sociale molto povera o forse addirittura uno schiavo. Non è possibile considerare Esopo l’inventore assoluto della favola, perché essa è un genere che ha radici profonde e ben più antiche, ma se non “inventò” propriamente la favola, sicuramente la portò a dignità letteraria. Abbiamo esempi di favola in Archiloco, in Esiodo, ma bisogna risalire alle antiche tradizioni popolari per ravvisarne le primissime tracce, senza escludere gli importanti influssi del vicino Oriente e dell’India, dove il genere favolistico era molto coltivato.

La favola nacque nel popolo fin dai tempi più remoti come espressione della sua vita, dei suoi sentimenti, delle sue pene. Il significato originario della favola fu la critica alla società che grazie a delle “maschere” e personaggi (molto spesso del mondo animale) si rivolge in nome dei deboli e nel segno della giustizia contro l’arbitrio dei potenti, contro l’arroganza del potere. A margine della favola c’è inoltre un insegnamento morale (per la verità subentrato col tempo, forse in età ellenistica), un suggerimento su come comportarsi seguendo o non seguendo l’esempio raccontato. Diversamente dai miti eroici e divini che rispecchiavano gli ideali dell’umanità superiore, la favola rappresentava il mito del volgo. Forse non senza motivo fu un proletario o uno schiavo (il suddetto Esopo) che nobilitò tale genere.  Sembra aver compreso appieno il carattere del genere favolistico lo stesso Vico che, pur negando l’esistenza storica di Esopo, faceva di lui il simbolo poetico delle plebi oppresse e deboli.

A noi è giunto sotto il nome di Esopo un Corpus di quasi 400 favole di cui non è possibile risalire il nucleo originario per ragioni linguistiche e perché le stesse morali sono frutto di un’aggiunta posteriore. La favola, tradizionalmente, ci presenta l’umanità nettamente divisa in 2 classi: da una parte i deboli e i poveri, dall’altra i potenti e i malvagi. I primi generalmente sono prudenti, cortesi, generosi, i secondi molto spesso ipocriti, astuti, prepotenti. Esistono delle eccezioni, come ad esempio (forse la più famosa) la favola della cicala e delle formiche, dove se è pur vero che l’insegnamento morale consiste nel preferire il lavoro faticoso (formica) all’ozio (cicala), è anche vero che a volte proprio la povertà rende insensibili e indifferenti (formica) al dolore degli altri (cicala).

Il mondo della favola è il mondo dei bisogni e dei sentimenti elementari: lavoro e stanchezza, sopruso e sopportazione, denaro ed egoismo. Un mondo di un ceto sociale per il quale spesso poesia, arte, bellezza sono un lusso; per il quale spesso l’unica realtà è la fatica e la rassegnazione, l’unico bene è la speranza se non fosse che essa non riempie la pancia (come crudamente dice la volpe alla cornacchia) o la morte, se essa non costituisse il peggiore dei mali.

Vladimiro D’Acunto