Le pillole della felicità.

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Vado velocemente al dunque. Il consumo di psicofarmaci nell’anno 2014, confermando un trend che, di anno in anno, attira sempre più consumatori, è salito (in Italia) quasi a 11 milioni di persone che, in un modo o nell’altro, hanno “beneficiato” di ansiolitici, antidepressivi e neurolettici. Fin qui niente di male, assumere un rimedio che, in un particolare momento della nostra vita, possa aiutarci a fare i conti con insonnia, paure inspiegabili o stati d’animo non proprio felici, potrebbe anche essere un fatto positivo. Quel che invece, certamente, non è positivo è il “come” ci si avvicina a questi farmaci. Desidero approfondire questo “come” dando un’occhiata più da vicino a questo malessere psicologico e da un punto di vista che tenga in debito conto della complessità della mente e dell’anima. Per questo mi occuperò, nelle prossime righe, di quella “malattia” sempre più diffusa, che ai più è conosciuta come depressione e per i medici sindrome depressiva. Capita, durante la nostra esistenza, che l’equilibrio che ci permette di condurre una vita normale, e per normale intendo che ci permetta di essere fisicamente sani, di avere delle relazioni sociali sane, di essere capaci di vivere il presente progettando un futuro, capita che questo equilibrio si rompa, si incrini. Non si è più in grado di gestire relazioni sociali efficaci, perdiamo la progettualità del futuro e cadiamo in depressione. Cadere in depressione (almeno così si usa dire) è il riflesso di una perdita, quella perdita di qualcosa che ha rotto l’equilibrio della nostra vita. Si può trattare della perdita di una persona cara, della perdita di una posizione sociale, di un affetto, una perdita di un bene materiale, si potrebbe trattare anche della perdita di un sentimento interiore come la sicurezza, la dignità, l’autostima, più raramente può capitare per la perdita di valori politici, sociali, ideologici, su cui avevamo puntato speranze e possibilità. A volte non siamo neanche consapevoli cosa abbia potuto ferirci talmente da farci ammalare di depressione. Certo, come se a saperlo, la vita non sarebbe più la stessa e allora è meglio abbandonarsi ad un movimento dell’inconscio, che porta all’oblio e a nascondere i fatti reali e dolorosi. Per questo la depressione, il più delle volte, è la forma di difesa più semplice che la nostra mente, alleata con la nostra anima, possa mettere in atto e permetterci di continuare a sopravvivere (non vivere) rimuovendo il dante causa del dolore. A ben vedere, da questo punto di vista, considerare la depressione una malattia, come l’ipertensione o l’epatite virale o il morbillo (solo per fare degli esempi) e cercare di guarire la persona facendogli assumere pasticche e gocce è il riflesso di una logica che non tiene affatto in conto la naturale immateriale della psiche umana, né delle dinamiche del dolore e tanto meno dei sentimenti che un essere umano è in grado di provare, considerando la mente un semplice (semplice!?) organo come un altro. La depressione, come tutte le malattie, è un momento di trasformazione dell’animo, un momento doloroso ma necessario affinché il processo di crescita interiore, quello che Carl Rogers (psicoterapeuta padre del counseling e della terapia centrata sul cliente) definisce tendenza attualizzante, possa riprendere con più vigore di prima. E sì perché la depressione è solo un inverno dell’anima, un ritirarsi momentaneamente dallo stridore della vita, dai rumori inutili, dalle faccende stressanti, da quella vita insulsa e banale che sembra sia pregna solo di insoddisfazioni, di bisogni deviati, di desideri repressi, un ‘inverno a cui seguirà una primavera come mai ce la si aspettava, fresca e profumata. Ma per cogliere i fiori della stagione della rinascita ci vuole coraggio. E’ necessario, per il proprio bene, attraversare quel tunnel, quel ponte che ci sembra pericolante e affidarsi ad una compagnia diversa da un flaconcino di gocce o uno scatola di colorate pasticche. La terapia della parola è sicuramente la più efficace per scoprire quale parte di noi è stata bloccata, offesa, oltraggiata, dimenticata, affogata. Se si pensa agli aspetti sociali dell’assunzione di psicofarmaci ci si rende conto della gravità di tale comportamento e della pericolosità latente che si cela tra le controindicazioni (la dipendenza è tra tutte la meno grave) e da qui a considerare che 1 mio concittadino su 5 assume psicofarmaci e che questo potrebbe essere l’autista del bus che mi sta portando al lavoro o sta portando a scuola i miei figli, o il giudice che deve pronunciare una sentenza, o un medico che sta recandosi in sala operatoria, una guardia notturna armata che sta vigilando sulla sicurezza del mio ufficio, o il comandante di una nave da crociera, allora mi viene la pelle d’oca. La depressione arriva quando si perde il coraggio di vivere è questo non possiamo ritrovarlo nel prozac ma solo guardandoci dentro. Oppure allo specchio.

Emiliano Abhinav Boccia Orizzonte