Fenomenologia di Ikea. Una cattedrale dell’iperconsumismo

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Sin dal giorno in cui il progetto di ammobiliare casa si è allontanato da quello di “accendere” un mutuo, molti sono stati – anche solo guardando alla nostra zona – i magazzini che si sono riempiti di cucine e camerette laccate di ogni colore e riempite di truciolato. Come primule delicate, le aziende che si sono inserite in questo segmento di mercato appena arrivata la primavera, non sono riuscite a durare che una stagione. Alcune sono state addirittura recise dai loro stessi produttori, che si sono ritrovati non raramente nei guai col fisco per la poco lecita facilità con la quale hanno tosato i loro prati sul terreno nazionale.
La storia di Ikea è invece diversa. Già dal lontano 1989 il leader mondiale del prêt-à-meubler si è inserito nel nostro territorio, dove ora conta 21 “negozi”. Gli svedesi lo fanno meglio? No, la forza di Ikea non è tanto quella di essere amica del portafogli, quanto piuttosto, con maggiore energia, quella che tecnicamente si chiama marketing emozionale. I cosiddetti “negozi Ikea”, infatti, non sono affatto dei magazzini pieni di mobili, che costano poco solo perché te li devi montare da solo, una volta arrivato a casa: sono delle vere e proprie cattedrali del consumo moderno (il negozio Ikea più grande del mondo, appena fuori Stoccolma, conta 55.200 m2, più del doppio della basilica di S. Pietro in Vaticano), dove oltre ad acquistare arredamento, si può “consumare” in mille e uno altri modi. Andare in un negozio, o meglio, in una cattedrale Ikea, è una vera e propria “esperienza”, un “pellegrinaggio” che porta via delle ore e che non è per niente legato al momento dell’acquisto di una casa, come lo era fino a pochi anni fa. In più, la “nomea” con la quale Ikea è entrata nel nostro immaginario (mobili economici da montarsi da soli) è soltanto un’immagine superficiale: i servizi post-vendita sono tutt’altro che trascurati dal colosso svedese e l’assortimento propone anche arredi e complementi d’arredo di qualità maggiore.
Il marketing emozionale, di grande successo non solo in Ikea, è in realtà il presente di un percorso storico di mercificazione di lunga data. Sin dagli anni del boom le imprese hanno cominciato a produrre sempre di più e non hanno smesso di crescere anche quando la domanda si è assestata. A quel tempo è diventato necessario “farsi riconoscere” dai clienti, distinguersi dalla concorrenza, essere più profittevoli (o profittatori?) degli altri: è così che è nato il marketing e da allora non ha fatto altro che crescere di importanza, a livello strategico dell’impresa. La sua espressione più appariscente è senza dubbio quella della pubblicità, che è un sofisticatissimo strumento di induzione al consumo sfrenato; uno strumento che già “ha stancato” i più bersagliati, i quali non hanno più bisogno di “prodotti”, ma di “sensazioni”. Il ruolo del marketing emozionale è proprio quello di dare soddisfazione a questo bisogno. Dunque non si tratta né di un “potere magico” né di una ideologia spendacciona svedese.
Le persone sono sempre più impegnate a lavorare (non per combattere la crisi, ma per essere in grado di consumare sempre di più) e non hanno più tempo per gli acquisti: scelgono pertanto sempre più spesso l’e-commerce, che non ha orari di apertura, non richiede spostamenti e consegna direttamente a domicilio. Comprare online, però, significa anche rinunciare al contatto diretto: è per questo che Ikea ci permette di sdraiarci sui suoi letti, è per questo che possiamo giocare con le console nei negozi (o cattedrali) di elettronica, ed è sempre per questo che anche le librerie più grandi ci permettono di sederci a sfogliare i libri per tutto il tempo che vogliamo.
Che “la pubblicità è l’anima del commercio” non è certo una scoperta recente, ma ogni minuto, nel nostro quotidiano, siamo circondati e spinti ad acquistare da trovate di marketing di ogni tipo. Lungi da terrorismi, se fossimo tutti più consapevoli di questo potremmo quantomeno tentare di consumare un po’ meno e vivere un po’ di più.

 

Chiara De Rosa