Il dono di Dioniso

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1794

Come non volare col pensiero, specie in questo periodo, alla vendemmia, alla vite ed al suo prezioso prodotto finale: il vino? Basterebbe recarsi nella Campania settentrionale o nelle colline del Sannio per accorgersi di quanto viti e vigneti – meraviglioso patrimonio culturale ed ambientale – siano il segno distintivo e caratteristico della nostra amatodiata regione. Le terre dell’Ager Campanus (antica denominazione della parte settentrionale della pianura intorno a Capua e a Napoli) sono ancora oggi le grandi terre del Falanghina e dell’Aglianico, del Piedirosso e del Greco, del Falerno e del Coda di Volpe, vitigni storici già coltivati tempo addietro dai nostri progenitori greci e romani. Il legame storico-linguistico con la Magna Grecia è evidente e di questo dobbiamo esserne fieri, prima come meridionali e poi come italiani. Non è certo un caso che la vitis hellenica (“la vite ellenica”) fu introdotta dagli antichi greci in Campania (e da qui si è diffusa in Basilicata e in Puglia), dando origine, probabilmente e tra le varie ipotesi, al nome “Aglianico”, corruzione del termine Hellenica, prima in Hellenico e, in epoca aragonese, in Aglianico, mediante il mutamento fonetico della doppia “ll” in “gl” e delle “e” in “a”. Ma se le origini del vitigno sono incerte, studiosi ed archeologi concordano sulla capacità dell’Aglianico di produrre vini di eccellente qualità, addirittura leggendari, nel vero senso del termine. Il termine “Greco”, invece, descrive con chiarezza la provenienza ellenica di questo vitigno bianco diffuso in Campania e in Calabria, regioni (come è noto) anch’esse anticamente comprese nella Magna Grecia. L’origine del vitigno Greco sembra sia da ricercare nel gruppo delle Aminee, viti greche lodate già da Virgilio nelle Georgiche e coltivate nell’Ager Falernus e alle falde del Vesuvio. Ma quando si pensa alle origini della viticoltura non solo della Campania, ma dell’Italia intera, è impossibile non ricordare l’Ager Falernus, l’area settentrionale della Campania ai confini del Lazio. Si tratta di un’area prevalentemente collinare occupata in buona parte dal vulcano spento di Roccamonfina e dal Monte Massico, in provincia di Caserta. Qui nacque, secondo alcuni, il principe dei vini, il Falernum, che, sempre per il solito Virgilio delle Georgiche, non aveva rivali: “…non gareggiare con le cantine falerne”; per Strabone dava fama a tutta la produzione vinaria della Campania e Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia lo classifica al secondo posto per qualità e notorietà fra tutti i vini italiani al tempo di Augusto. Mi sia consentito però di ricordare la citazione forse più celebre, del mio buon vecchio amico Petronio che nel suo Satyricon, in occasione della famosa cena Trimalchionis, scrive che gli haustores (antenati dei sommeliers) servivano un Falerno invecchiato di 100 anni: “In quell’istante furono portate anfore di vetro accuratamente ingessate, sui cui colli c’erano etichette con questa scritta: Falerno di cento anni del consolato di Opimio. Mentre decifravamo questa iscrizione, Trimalchione battè le mani. «Ahimè» disse «dunque il vino vive più di noi, poveri omuncoli!»”.

A conferma e testimonianza di quanto scritto, quindi, non c’è nulla da meravigliarsi se la nostra stessa Magna Grecia fosse chiamata un tempo Oinotrìa (dal greco òinos, “vino”, da cui si generò il suffisso “eno”), antica denominazione dell’Italia meridionale sicuramente in riferimento alla ricchezza delle sue uve, nome che solo in seguito fu allargato dai poeti all’intero nostro Stivale. Il vino è senza dubbio uno dei prodotti più antichi e straordinari che l’uomo abbia realizzato nel corso della sua esistenza. Il segreto di un fascino antico, passato indenne attraverso secoli di storia, la capacità di far arrivare ai nostri sensi aromi di memoria e di civiltà in cui il mito si mescola con la Storia e la quotidianità fino a confondersi, la sua forza, sono tutti ingredienti di una ricetta in cui il protagonista vino si nutre di Storia. Ma cosa rappresenta il rito del vino? Il vino trova soprattutto nel Mediterraneo il suo ambito geografico e i suoi specifici elementi di espressione, fino a divenire un aspetto determinante dell’intera società occidentale (e non) a tutti i livelli: rurale e urbano, proletario e aristocratico, profano e cultu(r)ale. Il vino, cioè l’atto di bere vino (il rituale potorio), ha assunto nel corso della Storia delle diverse civiltà, un significato ed un atteggiamento socio-culturale di estrema importanza. Eppure, presso quei Greci che, come ha già detto il linguista Bloomfield, “ebbero il dono di meravigliarsi per cose che altra gente accettava come naturali”, sin da subito il vino si caratterizzò come un rito complesso, che affondava le sue radici nel mito ma che, al tempo stesso, era in stretta connessione con la storia e le realtà sociali dell’epoca. Il dio “patrono” di tale prodotto era considerato Dioniso. Unico fra i celesti che non abbia due divinità per genitori, Dioniso ebbe per padre Zeus e per madre la mortale Semele, figlia di Cadmo re di Tebe. La presenza continua dell’elemento religioso è confermata dal fatto che la maggior parte dei riti, delle cerimonie e dei simposî in cui era protagonista il vino avvenivano sempre in onore del dio, senza mai perdere di vista la sfera di religiosità all’interno della quale si svolgeva l’intero rituale. Tale legame “di…vino” con la religione sarà adottato e riproposto anche nel Cristianesimo, dove il vino rappresenta un matrimonio inscindibile con alcuni aspetti della dottrina; basti pensare che il primo miracolo di Gesù a Canaan, in occasione di un banchetto nuziale, consiste proprio nel trasformare l’acqua in vino e lo stesso Dioniso, dio del vino e della vite, è l’unica divinità terrestre che (come Cristo) nasce, muore e risorge. Ma chi era Dioniso? Si tratta della più importante divinità degli antichi greci; benché sia noto soprattutto come dio del vino e di quella umidità della terra che contribuisce a portare i frutti a maturazione, la sua personalità è molto complessa, sia perché concorsero ad ampliare il suo mito elementi di divinità straniere, sia perché, in età piuttosto tarda, il culto dionisiaco si arricchì di aspetti mistici e filosofici (si pensi ai Misteri Orfici). Un dio enigmatico, ambiguo, spirito della contraddizione e della duplice natura, Tutta l’antichità lo ha celebrato come il donatore del frutto della vite, ma anche come il Mainòmenos, il “frenetico”, la cui presenza afferrava totalmente gli uomini. Dioniso era anche il “compagno” esattamente come il vino era nell’antica Grecia (ma probabilmente ovunque) l’amico fedele di ogni simposio, di ogni festa, di ogni tavolata, proprio come oggi. Il dio e il rituale potorio, intesi come divinità e cerimoniale che liberano dai limiti della quotidianità e dal peso della stessa natura umana, camminano sempre di pari passo. Egli era il dio della vitalità incoercibile, prorompente e gioiosa; il sovrintendente di tutto ciò che si poteva finalmente fare in occasione delle sue feste e dei suoi riti, ma, e vale la pena sottolinearlo, non era il dio del disordine o del caos, semplicemente il dio della libertà. Al suo culto divino appartennero, inoltre, quelle azioni drammatiche che hanno arricchito il mondo d’una delle più prodigiose creazioni dello spirito umano: il rito teatrale. Dioniso, divinità del vino e del teatro, era il dio dell’ebbrezza soave e del più estatico amore, ma anche della sofferenza e della tragicità. E infatti nella sfera dionisiaca ogni cosa è duplice, tutto è apparentemente in un modo, ma vero nel modo opposto; dietro l’apparenza si intravede costantemente un’opposta realtà: Dioniso è il dio della tragica contraddizione.

Il vino, quindi, nell’antichità come oggi era (ed è) il protagonista indiscusso della tavola e rappresenta/va un rito sociale di grande importanza che coinvolge/va un gran numero di convitati, in quanto strumento per esaltare la personalità e verificare la coesione e la sincerità dei singoli, svelando il compagno ai compagni. Il vino ed il bere vino, dunque, come banco di prova, di esame, per accertarsi della forza, della solidarietà e dell’unione di un gruppo. “Vino, amico mio, e verità”, ripeteva secoli fa il poeta greco Alceo; “Vino è vita”, gli rispondeva nella Roma d’età imperiale Trimalchione nel Satyricon di Petronio. Ma attenzione! Bere mantenendo sempre il controllo di sé, bere “conoscendo sé stessi”: questa è la condizione ideale, l’equilibrio auspicato; in questa stessa prospettiva va considerato il motto delfico “Conosci te stesso”, che vuol dire in realtà “Abbi la consapevolezza dei propri limiti”. Il principio cardine di cui il nostro Occidente si sente (o almeno dovrebbe sentirsi) partecipe, il fondamento secondo cui l’uomo è un essere limitato e, al tempo stesso, ogni cosa è limitata per l’uomo. Bere, insomma, non per infrangere la disciplina ma per provarne la solidità: il vino concepito come specchio dell’intera personalità, non solo della parte istintiva: chi beve vino deve “riflettere(rsi)”. E’ quindi possibile attingere a quella dimensione divina, oltre-umana, solo ed esclusivamente con il dono dato agli uomini da Dioniso: il vino. Come il teatro, riattualizzando il passato ed il mito, traghetta/va illusoriamente il pubblico oltre i limiti dello spazio e del tempo dimostrando in quale situazione tragica, comica o grottesca precipita chi – trovandosi, anche senza propria colpa, al di qua o al di là della giusta misura – si spoglia della sua umanità, allo stesso modo il vino è lo strumento in grado di trasportare l’umanità oltre i confini della normalità, attingendo ad un mondo immaginario, illusorio, ad una dimensione irreale, un luogo dove finalmente, anche se per un solo istante, il povero diventa ricco, l’infelice felice, l’umile potente.

L’ebbrezza, dunque, come farmaco della vita e strumento di equilibrio esistenziale e il vino da specchio dell’uomo diventa rimedio del suo umano dolore, rivelando al mondo la vera personalità di un qualsiasi individuo e svelando se il singolo è un compagno leale nel gruppo e, al tempo stesso, un uomo giusto nel cosmo.

Vladimiro D’Acunto