La Storia siamo noi – alla “scoperta” dell’archeologia (extended version)

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“Archeologia” significa letteralmente “studio dell’arkè”, vale a dire del “principio”, “origine”. Tecnicamente, dunque, l’archeologia tenta di rispondere a una di quelle grandi domande esistenziali (“chi siamo?”, “da dove veniamo?”, “dove andiamo?”) che almeno una volta nella vita ognuno di noi si sarà posto.

Sotto questo aspetto, tale materia appare molto come un qualcosa in bilico tra due scibili culturali diversi: c’è un momento in cui ha un approccio del tutto scientifico, e cioè nel momento del rinvenimento e dello studio dell’oggetto antico (ci sarebbe da considerare anche il restauro dello stesso, ma quello è un qualcosa da lasciar fare ai colleghi restauratori, appunti, che sono molto più competenti nel settore – e talvolta anche in altro), ma in seguito c’è un momento in cui leggendo tutti i dati, sommando tutte le nozioni in possesso, l’archeologo sveste i suoi panni polverosi di Storia e indossa quelli del filosofo. Si, perché a un certo punto della sua giornata ogni archeologo davvero degno di questo nome si ritroverà faccia a faccia con la scoperta più sensazionale mai fatta dall’uomo, quella dell’uomo stesso.

E’ l’uomo che ha costruito le piramidi, ed è sempre un uomo quello che ha costruito le ziqqurat così come è stato un altro uomo ancora a costruire la muraglia cinese. Migliaia e migliaia di popoli, milioni di etnie e clan, miliardi di opere artistiche e architettoniche ramificati lungo tutta la superficie terrestre stanno lì da centinaia d’anni per poterci dire, alla fine, una cosa sola: che noi tutti siamo semplicemente uomini e in quanto tali saremo soggetti alle stesse regole che seguiamo da sempre: nasciamo e moriamo, mangiamo e ci riproduciamo. E ci innamoriamo, componiamo sinfonie, tradiamo, proviamo sofferenza, sfruttiamo, pensiamo, uccidiamo nostri simili davanti e dietro le loro spalle; costruiamo navi, edifici, acquedotti e poi pensiamo ad armi che siano in grado di distruggerli. Coltiviamo la terra, creiamo religioni, dipingiamo, odiamo, abbiamo paura, ridiamo, peschiamo, cacciamo, salutiamo il sole con gioia e di notte guardiamo le stelle. Questo facciamo, questo abbiamo sempre fatto.

Archeologia è dunque più di una scienza. E’ un modo di educare. Educazione alla civiltà, educazione all’uomo, educazione alla vita. Scoprire il nostro passato non è altro che rispettare quel detto sacrosanto che campeggiava nel tempio di Apollo a Delfi, “conosci te stesso”. Una lezione del genere è probabilmente la migliore che si possa imparare e che forse dovrebbe avere in qualche modo una sua forma e un suo spazio perfino nelle scuole.

In mancanza di meglio, esistono in questa nostra matta Italia alcune scuole che oltre a gite e visite guidate permettono alle varie classi di trascorrere una giornata sul campo di un vero sito archeologico aperto e gli studenti, sotto la guida di esperti del settore, effettuano un vero e proprio scavo. Un esempio in merito è quello di una classe del liceo classico “Vitruvio Pollione” di Formia (LT) , una città la cui storia passata è fortemente legata a quella di Roma antica – era un apprezzato luogo di villeggiatura dell’elite romana e soprattutto il luogo dove Cicerone trovò la morte durante un soggiorno nella sua villa privata.

La città – non grandissima – giustamente sfrutta la sua storia e questo suo legame con il passato ponendo particolare attenzione a un turismo di natura archeologica. Ne è prova il museo della città, piccolo ma molto interessante e soprattutto perfettamente funzionante, dotato di tutti i servizi, nonché di personale accogliente e disponibile. Durante l’estate, gli eventi culturali che legano il loro nome a quello della Storia abbondano. Perfino la gastronomia dice la sua, esistendo una pasticceria che tra i vari dolci ne produce uno seguendo una vera ricetta romana trascritta dallo stesso Cicerone in una delle sue lettere.

In questo scenario le scuole della città e in particolare il liceo classico ne approfittano per insegnare ai ragazzi cosa sia un vero scavo archeologico e mi piace pensare che forse gli studenti ricevono una lezione di civiltà – e rispetto per la stessa – che magari non colgono subito ma che un giorno, quando si ritroveranno a dover fare i conti con il passato (tanto tutti prima o poi ci troviamo a farli) si ricorderanno di quanto questo passato lo hanno cercato nella nuda terra, tra zolle e lombrichi, e con la segreta speranza di trovare una moneta antica, un coccio, un pezzo di pietra con sopra una scritta in latino. E magari i più fortunati che ricorderanno questa esperienza, riusciranno anche a cogliere la sottile metafora che ogni buon archeologo sente sussurrare nelle sue orecchie e gli dice che in fondo, scavando, cerchiamo semplicemente noi stessi, sepolti tra gli strati di terreno e con la segretezza speranza di tornare alla luce.

Lasciamo quindi che siano le parole di una studentessa che ha partecipato allo scavo (precisamente nel sito archeologico di Minturno) a raccontarci l’esperienza: Leggiamo il suo articolo e sentiamo cosa può dirci in merito.

Danilo D’Acunto