Un colombiano in Texas

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“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.”

G. Garcìa Màrquez, Cent’anni di solitudine

Cosa mai potrebbero avere in comune Gabriel Garcìa Marquez e lo stato del Texas? Praticamente tutto. Già, perché se si va sul sito web www.utexas.edu, tra la sezione “News” e/o nel campo “Search” si digita “Garcia Marquez” si apre una pagina con la seguente dicitura: “Nobel Prize-Winning Author Gabriel García Márquez’s Archive Acquired by The University of Texas at Austin’s Harry Ransom Center”. L’intero archivio personale dello scrittore, premio Nobel per la letteratura nel 1982, è stato acquisito dal Centro Harry Ransom dell’Università di Austin. È suggestivo ed emozionante pensare che la copia dattiloscritta a macchina di Cent’anni di solitudine, le lettere scritte a mano e quant’altro adesso riposano e sono fruibili al mondo proprio in Texas, in felice compagnia di James Joyce, Ernest Hemingway, William Faulkner, Jorge Louis Borges. A fine anno il mio pensiero andrà sicuramente all’amico Marquez (morto l’Aprile scorso) che mi ha tenuto compagnia sin dall’adolescenza donandomi con il primitivo, genuino, ancestrale villaggio di Macondo un rifugio intimo, un non luogo, un’isoletta tutta mia di fantasia, di freschezza, in cui si è liberi, sognanti ma soprattutto remoti. Quest’autore mi ha insegnato molte cose, come quando leggendolo/interrogandolo capii che alla domanda se fosse “vero, come dicevano le canzoni, che l’amore poteva tutto” rispondeva dicendo che “è vero ma si fa bene a non crederci”; oppure quando mi suggeriva di trovare la verità, e al tempo stesso di prestare attenzione nel cercarla “con un’ansia appena paragonabile al terribile timore di trovarla”. Adesso mi piace immaginare Gabriel da qualche parte in Texas a bersi una Dr Pepper con l’amico argentino Borges che, proprio come afferma lo stesso Direttore dell’ Harry Ransom Center Steve Ennis, adesso potrà conversare piacevolmente in spagnolo con lui.

Un destino alquanto ironico quello di Marquez, grande e severo fustigatore dell’imperialismo economico e bellico made in USA e ora custodito e rispettato nello Stato con la stella. È opportuno riflettere su questo, cercando di capire e osservare ancora una volta le (apparenti) contraddizioni socio-culturali di un Paese (gli Stati Uniti) e di uno Stato (il Texas) forse quasi sempre superficialmente etichettati e liquidati come contesti arretrati, rozzi, prepotenti. Non è certo questa la sede adatta per un’analisi antropologica o sociologica, il tema è vasto, complicato, gigantesco e certamente al di fuori delle mie capacità analitiche e interpretative. Mi limito però a dire che puntualmente, quasi con disarmante precisione ad ogni (anche legittima) critica spesso proveniente dal Vecchio Continente, gli Stati Uniti rispondono sistematicamente colpo su colpo, con una loro peculiare e distintiva sensibilità culturale. Pensiamo al Texas. Stato petrolifero, danaroso, spregiudicato, retrogrado e conservatore, il 24 Novembre scorso ha acquisito l’archivio di Gabriel Garcìa Màrquez: una mole di appunti, lettere, manoscritti, fotografie, oggettistica, macchine da scrivere, computer, etc. L’attenzione, l’interesse, la capacità tipicamente statunitense di dissetarsi letterariamente a piene mani proprio per placare la loro stessa sete di Storia e di Cultura di cui, forse consapevolmente, saranno perennemente assetati sono a mio avviso ammirevoli e degni di religioso rispetto. Ecco la ragione di acquisizioni, di sviluppo di un’imprenditorialità culturale seconda a nessuno e, conseguentemente, l’umiltà statunitense dello studio, della ricerca infinita, dell’imparare acquisendo e nutrendosi di lettere e culture distanti e per loro formative. Insomma il Nobel Màrquez, lui stesso “bandito” e tenuto lontano dal suolo americano per molto tempo, oggi è stato accolto e “vive” in uno Stato la cui fama (dalla fine del 1800 agli inizi del ‘900) era di dare troppa facile ospitalità a banditi e ricercati di tutti i tipi. Un altro magnifico e interessante paradosso culturale a cui ormai gli Stati Uniti d’America ci hanno abituati e, in questo caso, continuano a suscitare in me profonda stima e rispetto.

Link correlati: http://www.utexas.edu/    http://www.hrc.utexas.edu/press/releases/2014/ggm.html

Vladimiro D’Acunto