“Uomo libero, sempre avrai caro il mare” C. Baudelaire

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Scrivendo quest’articolo pensavo alle simpatiche parole di un geografo di nome Eratostene “troverai dove Odisseo ha vagato, quando troverai il ciabattino che cucì l’otre dei venti”. Viaggio, vagare, navigare: magnifiche parole. Una delle azioni ed esperienze più emozionanti che possa capitarci. E’ dagli albori della letteratura che si parla di viaggio e come non navigare col pensiero al viaggio per antonomasia: l’Odissea.

Due libri che parlano di viaggi fisici e spirituali al tempo stesso; viaggi catartici, di purificazione, di espiazione. Due libri estremamente profondi e profondamente collegati tra loro.

L’Odissea e il personaggio di Odisseo/Ulisse rappresentano il testo che maggiormente ha influito sulla psicologia e sulla civiltà europea ma anche occidentale. Senza di essa, infatti, né Ariosto, né Cervantes, né Verne, né Joyce, né Melville, né Stevenson, né Defoe e tanti altri avrebbero potuto scrivere i loro capolavori. Un libro, insomma cui l’Occidente (e non solo) non può rinunciare senza uccidere se stesso. L’Odissea è il poema della navigazione in una poesia particolare: poesia di imprevisti, di eventi ai limiti della realtà (è difficile seguire in maniera logica la geografia del poema) ma anche poesia del Mare Nostrum, l’enorme Mar Mediterraneo che dalle pagine dell’Odissea sembra assumere i contorni dell’Oceano, o dei Mari del Sud, apparendoci ancora più vasto di quanto realmente lo sia. Un libro di avventure e di nostalgia, “…antico e pur sempre nuovo nelle cui pagine mormora il mare”, un mare dove gli antichi avevano effettivamente navigato lasciandosi incantare dalla maestosa sconfinatezza della sua calma come dalla potente mostruosità delle sue tempeste. Il fascino del mare omerico, fascino reale e immaginario ad un tempo, arriva a cambiare nomi, tempi e luoghi a uomini e cose, in un viaggio che non è mai uguale a se stesso, ma muta in continuazione esattamente come il palcoscenico della vita in cui sono protagonisti alcuni attori giganteschi come montagne (Ciclopi e Lestrìgoni), esseri strani e curiosi (il dio-mago Eolo), delicati e sognanti (Nausicaa, Calypso), inafferrabili e misteriosi (Circe e le Sirene). L’Odissea è quindi il poema del mare e dell’avventura; il mare “scuro come vino” e avido di marinai è il protagonista dell’intera vicenda, esattamente come nei fumetti di Hugo Pratt. Del resto proprio una vignetta umoristica sembra essere la metopa di Paestum (proveniente dall’Heraion alla Foce del Sele) raffigurante con ironia e senso dell’humour Ulisse naufrago sul dorso di una tartaruga marina mentre scorge l’orizzonte. In presenza di bonaccia o tempesta il mare fa continuamente da sfondo alla navigazione del protagonista.

Anche in Moby Dick di H. Melville il protagonista è il mare e soprattutto il viaggio. A riguardo riporto quello che è stato definito dalla stragrande maggioranza dei critici letterari l’incipit (inerente il mare) più bello della storia letteraria: “Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. E’ un modo che io ho di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto.” L’oceano, quindi, inteso come mondo e lo spirito di avventura come quotidianità, eppure c’è dell’altro: il viaggio, la peregrinazione maniacale come modo e diversivo per sfuggire le mal de vivre (incarnato nel Capitano Achab). Ma il viaggio deve portare ad una meta e questa meta è Moby Dick, la balena bianca e cioè l’ignoto, l’irraggiungibile. La voce narrante e onnisciente è quella del protagonista Ismaele, nome biblico dell’esiliato per antonomasia, e racconta le peripezie di un viaggio fatto di incontri casuali con altre baleniere per la cattura di capodogli e cetacei. Moby Dick è un’opera vasta, con infiniti livelli di narrazione e di registri espressivi ma il racconto di Ismaele ha un leitmotiv ben definito: l’epico inseguimento di Achab contro il mostro bianco che gli ha tranciato la gamba e la sua cieca vendetta contro ciò che non sarà mai sconfitto. Ma l’autore (grandioso) è capace di scaraventarci direttamente sul Pequod, la baleniera di Achab, privandoci di ogni riferimento, di ogni ausilio al punto di rendere il lettore stesso prigioniero “fedele” di Achab. facendoci vivere in maniera diretta l’immenso oceano tumultuoso dell’opera Moby Dick: un oceano fatto di salsedine, di correnti, ma anche di dissidi interiori, di follia, di preghiere. Moby Dick è terrore dall’abisso (materiale e spirituale), paura e diffidenza di ciò che non siamo in grado di capire, è una caccia continua tra ogni uomo e il proprio mostro degli abissi, creatura spaventosa che genera dentro il lettore sentimenti di terrore e di vendetta. Ognuno di noi ha una sua Moby Dick, con la quale è chiamato inevitabilmente a convivere.

Vladimiro D’Acunto