Davvero strano, ma bellissimo

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Roma, una terrazza che affaccia sul Colosseo: Jep Gambardella è un giornalista di successo con l’animo da scrittore. Magistralmente interpretato da Toni Servillo, Jep è un osservatore curioso e disincantato agli occhi del quale la realtà che lo circonda appare in tutto il suo dualismo. È una realtà di persone che vivono in modo superficiale e di altre che muoiono schiacciate dal peso della loro esistenza: una cornice mozzafiato, come quella della città eterna, per un quadro cangiante in cui niente è come sembra. È un’opera che stupisce talmente tanto da cassare i pregiudizi, perché spinge a guardare e guardare e scavare sempre più a fondo, nelle profondità e assurdità della città e dell’animo umano. Privo di passaggi scandalosi, è un fluire continuo di episodi diversi, infiocchettati da musiche – queste sì – spiazzanti e interpretato da protagonisti della scena italiana, anche comica, perfettamente a loro agio nei malinconici silenzi in cui l’autore li pone.

Ma non è un ritratto, non è un riassunto: è una storia, maledettamente semplice. La grande vittoria di Paolo Sorrentino sta forse in questo: nella sincerità pietosa con cui ci fa osservare un mondo che in fondo nemmeno esiste. Lo stesso regista ha asserito, lo scorso 23 gennaio al Festival di Kusterndorf: “Non mi piacciono i film naturalistici né dirigo film che denunciano”; con un rimando al maestro Fellini, il quale diceva di fare questo mestiere perché gli piaceva “raccontare bugie, inventare fiabe”. Ed è sempre il maestro, col quale “è impossibile non fare i conti”, il mostro sacro dal quale Sorrentino (sue le parole) ha ambiziosamente tratto ispirazione, specie nel passaggio iniziale. Altri richiami a lui e a Ettore Scola (“La terrazza”, 1980) sono stati visti, non tutti confermati da dichiarazioni del regista. Un esempio è il vagabondare curioso e attento del protagonista, che egli ha spiegato come cenno autobiografico (anche lui è un napoletano trapiantato a Roma da diversi anni, che continua a passeggiare come un turista), ma che è stato letto come omaggio al personaggio di Marcello de “La dolce vita”.

Le parole di Fellini restano tuttavia significative per la comprensione d’insieme dell’opera, perché è così che è nato il cinema: come scatola magica, artificio e meraviglia per gli occhi e per le menti. Vi invito, perciò, a cercare il “miracolo” negli occhi di Jep e a vedere il lungometraggio come se fosse “soltanto un trucco”, una storia spettacolare, come quelle per bambini.

Chi entusiasmato, chi profondamente deluso, questo film non lascia indifferente nessuno. Un po’ rattrista, però, pensare che tra gli scontenti ci siano tanti italiani. Tra le critiche che sono state mosse alla pellicola, c’è anche quella di non avere un messaggio forte, di dire cose “che già si sanno”. L’ultima volta che l’Italia, o meglio, che gli italiani hanno vinto un Oscar era il 1999: “La vita è bella” di Roberto Benigni commosse il mondo intero e segnò una pagina indelebile nella storia del premio. Non credo che agli Oscar si sia sentito un concetto più semplice di “Life is beautiful”, che detto così sembra quasi una banalità, invece è un capolavoro. Forse è proprio nelle cose più semplici che si cela “la grande bellezza” ed è possibile scorgerla solo da una certa distanza, da una ponderata prospettiva.

A dimostrazione di ciò, bastino i tanti premi vinti in Europa e oltre dalla pellicola, il più importante dei quali è senza dubbio il Golden Globe, assegnato a Hollywood dalla stampa internazionale, per il “miglior film straniero”. Categoria questa per la quale il regista e i grandi professionisti che con lui hanno lavorato gareggeranno anche per gli Oscar, e sono tra i favoriti. Nonostante ciò, molti italiani continuano a storcere il naso, a considerarlo un riassuntino dei nostri vizi fatto per compiacere il gusto americano (quello citazionistico per primo), a rifiutare una visione dell’Italia diversa dalla loro intima e personale. “Grazie, Italia! Questo è un paese davvero strano, ma bellissimo” ha detto lo stesso Sorrentino all’annuncio (a sorpresa) della vincita del Globo D’Oro, e per chi scrive questi due aggettivi sono sufficienti a descrivere il film stesso, ancor più che la sua accoglienza.