Storie olimpiche

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“La cosa più importante nei giochi olimpici non è vincere, ma partecipare. Poiché la cosa più importante non è il trionfo, ma la lotta. La cosa essenziale non è conquistare, ma battersi con onore.”

Barone Pierre de Coubertin , 6 Aprile 1896 – discorso inaugurale della prima olimpiade moderna.

Si è da poco spenta la fiaccola olimpica a Londra e già il quotidiano britannico The Guardian si è spinto a scrivere che il periodo tra le ultime due olimpiadi londinesi (1948 – 2012) verrà ricordato come The Age of Decline, l’età del declino, per il successo a risonanza globale che hanno avuto; noi ci limitiamo col dire che quelle di Londra 2012 sono, anche, state le olimpiadi dell’organizzazione: a memoria, mai era capitato che nessuno si lamentasse, anche per la più insignificante lacuna organizzativa.

Ogni quattro anni questa manifestazione, ovunque venga fatta, mostra al mondo come si potrebbe vivere insieme (e, puntualmente, nemmeno ci si prova), senza burqa (o burka), senza veli, con quella “naturalezza sociale” di cui i grandi poteri storicamente ci hanno privato.

Anche per tali motivi, questi sono stati i giochi olimpici degli apolidi, di coloro che hanno gareggiato sotto la bandiera dai cinque cerchi e che potevano portare solo nel cuore (o con un bracciale) i colori della propria nazione d’origine. Non erano molti, ma c’erano.

Tra le tante storie di vittorie, sconfitte e non-mere partecipazioni, c’è la storia dell’americano Matthew Emmons, bronzo della carabina 50 metri 3 posizioni (gara vinta dal nostro Niccolò Campriani). Ha sbagliato l’ultimo tiro, come gli successe ad Atene 2004 e Pechino 2008, perdendo l’argento, ma gareggiando dopo un tumore alla tiroide e un’operazione a cuore aperto. Le lacrime di commozione, condivise con l’amico Campriani, le ricorderemo come un momento bello, nobile.

Il trionfo di Mohamed Farah, atleta britannico di origine somala, oro nei 5000 e nei 10000 metri piani , ha ancor più stimolato il ricordo della tragica storia di un’atleta somala, Samia Yusuf Omar: lei non ha partecipato a Londra 2012, ma a Pechino 2008 nei 200 metri di atletica. Il suo sogno, di entrare nella UE come semplice cittadino riconosciuto, è letteralmente naufragato nel Mar Mediterraneo, dove è morta, insieme ad una barchetta salpata dalla Libia che trasportava altre centinaia di persone. A Pechino era arrivata ultima, 32 secondi di sforzo a cui nessuno fece caso, ma che riempirono di gioia lei e la sua nazione. Quattro anni dopo, proprio come il tempo che intercorre tra due olimpiadi, il destino le ha riservato una storia completamente diversa: triste e tragica, come l’altra faccia della medaglia.

Altra faccia della medaglia che in alcuni casi può essere anche oscura, come il doping. Non si può non citare il caso dell’ex campione olimpico nella 50 km di marcia, l’italiano Alex Schwazer. Indifendibile, vero. Tutti abbiamo dannato o pianto con lui, “costretto” a dire una verità che magari altri non osano dire. Ma chi decide di raccontare “un grande errore” commesso è, prima di tutto, un uomo, con le sue debolezze, oltre che un meccanismo di un sistema che obbliga ad arrivare ad ogni costo.

Sono una miriade le storie olimpiche, perché ogni uomo ha una storia, dolcemente semplice o tristemente complicata, da raccontare. Quella del sudafricano Oscar Pistorius la conosciamo tutti, ma resta il simbolo vero della famosa frase, del pedagogista e storico francese, che ci introdusse nell’epoca delle olimpiadi moderne.

Armando Falcone

falcone.armando@libero.it